Mappa racconto esperienza
Ogni nostra interazione con luoghi e persone genera storie, ma queste sono destinate perlopiù all’oblio. Dispositivi mobili e internet degli oggetti rendono queste storie tracciabili e documentabili, e permettono un’interazione arricchita con l’ambiente che ci circonda.
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La mappa come racconto
L’analogia tra mappa e racconto è fortissima. […] il processo che porta alla produzione di una mappa è il medesimo che porta alla scrittura di un romanzo. […] Ogni romanzo genera la mappa di un mondo condiviso da autore e lettore. Allo stesso tempo ogni mappa produce un racconto sul territorio, una serie di significati, che una volta condivisi dall’osservatore divengono vettori di senso (Luigi Farrauto, Mappe come romanzi).
Le parole di Luigi Farrauto si riferiscono al progetto Urbino walk in progress, una mostra laboratorio sulla rappresentazione della città. Che ruota attorno all’idea della mappa come storia, quella degli abitanti che vivono la città e quella della città inevitabilmente (ri)modellata dal vissuto degli abitanti medesimi.
Perché il nesso fra mappa e racconto dovrebbe interessarci? Perché è alla base anche di ogni forma di esperienza e di design dell’esperienza. Le convergenza tra fisico e digitale, in particolare, abilita modalità nuove di scrivere storie nelle geografie, che possono essere sfruttate per creare esperienze più ricche.
Gli abilitatori narrativi
“O Giglio-Tigre” disse Alice “Che bello sarebbe se tu potessi parlare!” (Lewis Carroll).
Ogni nostra interazione con oggetti, luoghi e persone genera storie: si tratta però di storie effimere, destinate nella maggioranza dei casi all’oblio. Dispositivi mobili, sensori e internet of things restituiscono alle nostre storie quotidiane una voce, le trasformano in racconti documentabili, permettono un’interazione arricchita con l’ambiente che ci circonda. I luoghi diventano così senzienti, capaci di interagire, proprio come avviene nel mondo di Alice.
Internet delle cose, social network, sistemi di georeferenziazione sono le penne e il supporto che permettono oggi a queste storie di materializzarsi e depositarsi sugli oggetti. In questo senso, trovo azzeccatissima la definizione di Giulio Lughi dei nuovi dispositivi digitali come abilitatori narrativi:
oggi i gadget digitali svolgono stabilmente il ruolo di gestori narrativi ed emozionali dei soggetti immersi negli ecosistemi di comunicazione sociale, e questo in due sensi: a) grazie ai gadget i soggetti sociali diventano narratori (nel momento in cui ad esempio taggano i luoghi che percorrono associandoli a frammenti del proprio vissuto); b) ma allo stesso tempo sono oggetto di una metanarrazione che deriva dal loro essere presenti sul territorio, dall’ininterrotto scambio di dati (in input e output) che il semplice fatto di tener acceso il cellulare comporta.
In prospettiva, l’odierno “uomo con lo smartphone” erede del flâneur baudelairiano, filtrato attraverso la rilettura di Benjamin, figlio del portatore di walkman immerso nella bolla comunicativa, sembra quindi avviato ad assumere attraverso la mediazione tecnologica le valenze simboliche di un nuovo rabdomante, intento a leggere/scrivere infiniti percorsi narrativi alla ricerca della propria identità dispersa nel macroipertesto della reticolarità contemporanea (Giulio Lughi, Gadget emozionali).
Racconto, architettura dell’informazione, esperienza
Racconto architettura dell’informazione ed esperienza sono intimamente legati. La loro essenza si potrebbe ricondurre proprio al creare storie o renderle visibili.
- Rendere visibili informazioni o servizi relativi a luoghi o edifici, per migliorare o arricchire la nostra interazione con essi, è raccontare qualcosa di quegli elementi
- stabilire percorsi, correlare fra loro dal punto di vista informativo differenti nodi della città secondo criteri tematici, di utilità ecc., è una forma di narrazione ancora più forte
- stabilire correlazioni a più livelli, fra luoghi e oggetti della città, il loro stato (traffico, orari ecc.) e item che appartengono ad altri contesti (media o canali) oltre lo spazio architettonico (documenti, contesto sociale ecc.), è un tipo di narrazione ancora più complessa perché si svolge su più dimensioni.
In tutti i casi possiamo immaginare di generare storie secondo una duplice direzione:
- top-down, ovvero storie-correlazioni fra oggetti e informazioni stabilite centralmente da qualcuno (il designer, l’amministrazione ecc.)
- bottom-up, ovvero storie-relazioni create dal basso dalle persone stesse.
L’obiettivo ultimo è quello di un design blended, che consiste nel bilanciare meccaniche top-down (quelle elaborate dall’alto dall’azienda) con quelle bottom-up (il feedback che proviene dal comportamento spontaneo delle persone), mediante un processo di azione e retroazione.
Nonostante la diffusione del digitale le nostre esperienze trovano ancora nei luoghi fisici il punto di massimo coinvolgimento. I luoghi sollecitano tutti i nostri sensi restituendoci un’esperienza più immersiva: pensiamo ad esempio al punto vendita, al museo, alla città più in generale. Il matrimonio di atomi e bit è un modo per “esperienzializzare” luoghi e servizi rendendoli resilienti, capaci cioè di rispondere alle esigenze di ciascuno modellandosi sui suoi bisogni, obiettivi, strategie di ricerca.
Trasformare la città in un tavolo da gioco del futuro. Trovare modi per rendere visibili visioni alternative della città. […] una nuova esperienza di città 4D: paesaggi urbani che possono essere navigati non solo nelle tre dimensioni spaziali conosciute, ma anche nella dimensione dei dati, sia storici sia futuri (Institute for The Future, Cities in Transition: Forecast & Scenarios).
Il progetto Ubrbanflow Helsinki è un’ottima sintesi di tutto questo.